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Cos’è la rabbia
Benessere al femminile
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Dott. Paolo Serra
Psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista.
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Cercare una definizione scientifica del termine non è agevole. Il “Dizionario di Psicologia” di Arnold ed Eysenk non cita nemmeno il termine e bisogna aspettare un nuovo Dizionario, quello scritto da Umberto Galimberti, per trovarci qualche riferimento, peraltro rinchiuso in poche decine di righe. Il termine, secondo Galimberti, si può ridurre ad un’infezione virale che si prende a livello nervoso, quindi a una malattia infettiva.
Una “rabbia insolente”, più psicologica, viene rivolta ai bambini che manifestano disagio nei confronti degli adulti che impongono loro di apprendere forzatamente il controllo degli sfinteri. Naturalmente, questi bambini, colpevoli appunto di essere ancora in formazione nel controllo del proprio corpo, sviluppano in seguito una paura ancora maggiore, che costituisce la base di quello che in seguito verrà chiamato un comportamento ossessivo-compulsivo. Insomma, i bambini vengono giudicati difettosi già appena nati. Sulla base della nostra esperienza clinica, che è fondata semplicemente sul campione rappresentato dei nostri pazienti, proviamo a definire la rabbia nel modo seguente:
La rabbia è uno stato d’animo di qualcuno che non accetta che le cose accadano senza il proprio consenso.
Se assumiamo questo punto di vista, è comprensibile che le persone che si sentono impotenti di fronte agli eventi che non possono controllare, manifestino questi sentimenti di impotenza anche in maniera rabbiosa. Per tornare all’esempio in cui il mondo adulto educa i bambini al controllo degli sfinteri, sarebbe più facile lasciare che ogni bambino avesse il proprio tempo nell’acquisire questa capacità, senza forzarne i tempi e senza farli sentire in colpa se non rispettano le tabelle di marcia che gli adulti pretendono, perché ogni abilità ed ogni capacità ha tempi e ritmi diversi per ognuno di noi.
Come scaricare la rabbia che si prova?
Essendo un’emozione, anche la rabbia può avere un suo trattamento e cura. Non va dimenticato che qualsiasi trattamento si voglia perseguire necessita di una precondizione riflessiva: “Sono in grado di farlo?”. Se la risposta è positiva, questa innesca potenzialità non solo conosciute, ma anche quelle latenti e anche inconsce, perché l’interrogativo iniziale ha potenziato le proprie qualità.
L’accesso alle proprie parti inconsce, dovuto proprio alla parte riflessiva, consente una nuova e più matura conoscenza del proprio Sé. La nuova esplorazione, se adeguatamente sostenuta dal mondo esterno affettivo, consente l’innesco dei rinforzi emotivi di cui gli umani hanno bisogno per lasciar emergere e liberare le parti emotive bloccate dalle proprie esperienze passate e, soprattutto, lasciare lo spazio emotivo liberato a disposizione di nuove esperienze costruttive e nuove visioni di noi stessi. Dall’iniziale rabbia inconsapevole verso se stessi si passa a una cura emotiva di sé che può accedere anche a una trasformazione in parole degli stessi stati d’animo. Se queste trasformazioni in parole sono condivise con un terapeuta, e quest’ultimo è naturalmente attento a condividere questo cammino emotivo, la cura avrà certamente successo.
La rabbia, come tutte le emozioni, non ha bisogno di essere giudicata per poter essere curata, ma ha bisogno di essere compresa e trasformata nella nuova relazione di cura che il paziente si concede con un terapeuta. La cura ha come pratica la fine del bisogno di dominio dell’altro, perché l’altro viene visto e vissuto come un interlocutore che non ha niente da nascondere e non ha nessun desiderio di opprimerlo.
Si impara che i nuovi rapporti non generano necessariamente paura, nemmeno se non li si comprende. Al limite, se non sono soddisfacenti, li si abbandona. L’incertezza di ogni cosa del mondo è diventare emotivamente curiosi, non perché il nuovo è necessariamente positivo, ma perché si è sorretti dalla fiducia di potersi mostrare per quello che si è, senza paura di essere rifiutati per i propri limiti.
L’accoglienza delle proprie posizioni, la fiducia che le proprie ragioni verranno ascoltate saranno determinanti perché la rabbia svanisca dalla propria corazza caratteriale. Presento un’esperienza clinica in cui questa caratteristica emotiva della rabbia è particolarmente accentuata nel paziente. Naturalmente è una sintesi dei vari momenti della terapia, in cui accompagno anche delle riflessioni cliniche.
Mario e la sua rabbia
Mario, seduto in maniera rilassata nel mio studio, parla delle tante riflessioni fatte questa estate. Il tono è pacato, anche un poco depresso, ma con una venatura di ottimismo per quello che sta facendo. In questi sette anni di terapia ha avuto molte metamorfosi: l’iniziale uomo ribelle e che chiedeva solo di essere ascoltato e non accoglieva nessun tipo di domanda, si è trasformato oggi in un uomo che riconosce la fragilità della propria identità, fondata su un bisogno di accoglimento affettivo ancora molto infantile, e quindi estremamente vulnerabile. Mario, all’inizio dei nostri incontri, aveva espresso la necessità che il mio essere con lui fosse solo una presenza d’ascolto. Non tollerava eccezioni e ogni mio tentativo di porre domande era stroncato da proteste, spesso rabbiose, di voler essere solo ascoltato. Non si era mai sentito ascoltato prima.
Era nato in una famiglia in cui non aveva mai potuto e saputo prendere la parola e le affermazioni altrui non potevano essere nemmeno interrogate. Ai miei tentativi di dialogo reagiva come aveva reagito suo padre con lui: con furore. Ma era anche contraddittorio: “Lei però deve stanarmi, non l’ha capito? Se lei non mi martella ai fianchi come faccio a difendermi? È l’unica cosa buona che so fare nella vita, so difendermi bene. Perché non mi consente di difendermi come so fare?” mi diceva rabbiosamente.
“Cosa le fa pensare che sia qui per martellarla?”
“Sono stufo delle sue domande sul senso che ha per me quello che dico e che faccio con lei. Io non voglio sentire solo domande, io voglio che lei mi dica se quello che faccio è giusto o sbagliato, che corregga i miei errori. Io la pago per questo!”
“Lei mi paga per avere un giudizio su quello che fa?”
“Si, no… non lo so. Vorrei tanto che mi si dicesse cosa devo fare!”
“Da quello che capisco della sua affermazione non la posso aiutare in questa direzione. Giusto e sbagliato sono processi della coscienza, e quindi dentro di lei sa già la risposta.”
“Non la sento un avversario, ma così come fa con me non mi aiuta. Mio padre mi diceva cosa dovevo fare e come dovevo farlo. Con lui ho imparato a reagire bene, alla fine lo inchiodavo al muro! Con lei non ci riesco, non mi sollecita mai, mi costringe a ripensare sempre alle cose che dico e a come le dico. Che palle! Perché tutto quello che faccio deve avere un significato?”
“Quello che succede qui ha un significato. Non so qual è per lei, ma so per certo che c’è un significato anche per lei.”
Mario è anche esasperato del mio non esserci come immagina debba esserci una figura paterna. Quella figura che lui ha dentro è una figura estremamente giudicante, una delle tante funzioni paterne. Della sua esperienza d’amore con la figura paterna, quello di essere giudicato come una persona carente è l’unica in grado di riprodurre continuamente nella sua relazione con me. Ma comincia a pensare ogni tanto che probabilmente non è sempre necessariamente così.
Quando è il tempo in cui si capisce?
Avanzo una riflessione su questi scambi con Mario.
Quando è il tempo in cui si capisce? Chi lo definisce? C’è una definizione del tempo in cui è necessario capire o questo tempo va lasciato all’esperienza affettiva di ognuno di noi?
Mario mi accusa di due cose diverse e complementari: da una parte mi accusa di non sollecitarlo abbastanza e dall’altro si ritrova costretto a ripensare continuamente alle cose che dice e che fa con me.
Posso svolgere la funzione interrogante in altro modo? Se sì, come è immaginabile, qual è il modo più giusto?
Nel rispondere a Mario che c’è un significato, è implicito che c’è un significato anche per me. Mi interrogo sulla mia coerenza attorno ad alcuni punti strutturali: il mio ruolo prevede una funzione che interroghi la domanda del paziente; la mia risposta è tendenzialmente sulla domanda e non alla domanda. Mi interrogo anche su alcune questioni processuali: la funzione interrogante non sempre è possibile, il paziente non ci sta. Non tutte le risposte sono possibili solo sulla domanda. Alcune considerazioni come terapeuta bisogna darle in certi momenti dell’incontro terapeutico, altrimenti è trattare il paziente come se fosse solo, interrogandolo e basta. Il problema è che tipo di risposta e di considerazione fare e in che momento farla. La relazione è a due sul piano reale e a tre o più soggetti sul piano immaginario. Basti pensare ai personaggi che sono portati in scena. Il paziente vorrebbe svolgere con me una specie di partita di calcio. Ma la cosa non funziona così, perché non sono l’avversario in campo. Non posso neanche fare l’arbitro e quindi chiamarmi fuori dalla contesa. Anche perché pure l’arbitro fa parte della contesa. L’incontro terapeutico è paragonabile all’incontro che fa un escursionista, che ha perso il sentiero, con un pastore che segue il gregge al pascolo. Il pastore conosce la topografia del posto dove pascola il gregge, è consapevole che percorrere un certo vallone conduce in una certa direzione, che occorre attenzione ai salti di roccia, e così via. Sa che le pecore cercano il pascolo migliore e che, uscite dall’ovile, esse si sparpaglieranno in questa ricerca. Di volta in volta il pastore si ritroverà in un posto diverso. Quando è l’ora di riportarle nell’ovile egli localizza la topografia del posto dove sta e guida il gregge in un sentiero, perlopiù da tracciare, per tornare a casa. Col viandante è un po’ la stessa cosa. Il pastore non sa dove vuole andare il viandante. Ammesso che il viandante sappia nominare la meta, non è detto che il pastore sappia indicare il sentiero per raggiungerla. Forse il pastore ha percorso un sentiero molto diverso per arrivare dove si trova oggi. Però il pastore sa che la meta indicata “è là”. Quel “è là” è solo un’indicazione topografica, non è geografica e neanche normativa. Non afferma che sentiero bisogna prendere, indica solo una direzione: “è là”.
Si può chiamare questa, una direzione etica?
Judith Butler scrive: ”Parte del compito etico della psicoanalisi consiste nel rendere gli adulti consapevoli del fatto di non essere più bambini, del fatto che le asimmetrie richieste dall’infante e dal bambino, non sono modelli applicabili alle relazioni adulte che rientrano nell’ordine etico.”
Quello che rimane sono io
Riprendo un altro scambio con Mario, avvenuto circa un anno dopo quello sopra riportato.
“Sono contento di essere qui. Non ho nessun motivo logico per provare questo piacere, però è così.”
“Motivo logico?”
“Si, non c’è logica in questo piacere. Qui non succede niente, si parla e basta, anzi, parlo quasi solo io. Però il lunedì è diventato un momento importante, è per me fonte di piacere pensare che verrò qui… Mi sembra di riprendere ogni volta lo stesso tema, però mi pare anche che ci sia un tono diverso. Mi sento con una voce diversa, meno dura. Non mi ritrovo più il mio vocione che terrorizzava tutti… è come se fossi rimasto solo uno scarto di quello che ero, è come se fossi rimasto una cosa impalpabile. Mi sento tutto rivoltato.”
”Uno scarto?...”
“Sì, uno scarto, un residuo tra quello che penso e quello che faccio. Quello che rimane fra le due cose sono io.”
Non c'è logica in questo piacere
Faccio un’altra riflessione su questo scambio.
Per il mio paziente non c’è logica nel suo piacere d’essere contento in quel momento. Ha solo assunto un ritmo di vita che è diventato “rito”, un atteggiamento che produce non una cosa ma uno stato d’animo. Lo stato d’animo non ha logica. È solo una condizione temporanea. Naturalmente questa è la sua esperienza. Lo stato d’animo è sempre e solo transitorio. Una potenziale durata dello stato d’animo è condizionata grandemente dalla relazione che ha in quel momento, sia che avvenga con un altro essere reale che con un’aspettativa immaginaria. Un frammento clinico, pur nella molteplicità di congetture a cui si presta, è un flash che dà un’idea di quello che avviene in un incontro terapeutico. Intanto testimonia un istante di storia della coppia terapeutica. Poi, il tempo e lo spazio in cui si produce quel frammento e gli accadimenti emotivi ed affettivi che lo caratterizzano rimane certamente il senso più misterioso e profondo del nostro lavoro clinico. Pensare ad un incontro terapeutico, presuppone un pensiero di relazionalità di cura della coppia analitica. Sappiamo quanto sia decisivo il nostro atteggiamento negli incontri che facciamo, ma sappiamo anche che insieme a noi c’è un altro, un altro che ci influenza e che influenziamo con i nostri atteggiamenti. In effetti, molto della teorizzazione psicoanalitica classica parte dal considerare i problemi che una persona affronta come se questi problemi subissero una specie di processo impersonale. Un incontro di cura è un incontro un poco particolare. È un incontro col proprio destino. Ecco, la cura di sé è la cura del proprio destino. Mentre scrivo questa frase mi pare che essa sia una buona sintesi di quello che ho in mente quando parlo di “cura di sé”. È anche evidente quanto questa parola rischi di essere un’asciutta metafora. La parola, ogni parola, è fondamentalmente limitante, quando addirittura non è ambigua. Il suo significato assume un senso e un significato condiviso solo nell’incontro tra chi parla e chi ascolta. Fuori da quell’incontro quella parola è interpretabile, a seconda dell’interlocutore, oppure vuota di senso, se chi la legge non si immedesima in quello che sta leggendo.
La parola umana non è scienza
Come sostiene convincentemente Raimon Panikkar, nella parola umana non c’è niente di scientifico.
Quando io parlo, dico qualcosa con le mie intenzionalità consce e inconsce, utilizzo un tono alto o basso, aggressivo o seduttivo, armonioso o duro, emetto un contenuto che posso articolare in modo chiaro e condiviso oppure oscuro e incomprensibile, c’è un altro che mi ascolta e che riceve la mia parola, a seconda della sua disposizione d’animo nei miei confronti e di quello che intende ascoltare, delle sue aspettative e delle sue idiosincrasie. Il senso delle mie parole può essere inteso solo se si tiene conto di tutti questi elementi, inseparabili l’uno dall’altro. È la loro contemporanea unità che la denota come parola umana. Qualsiasi tentativo di frammentarla nelle sue parti costituenti la renderebbe atomizzata e frammentata, e lo studio di questa frammentazione ne sancirebbe la totale incomprensibilità delle singole parti. La parola umana non può quindi essere oggettivata e, di conseguenza, ridotta ad oggetto di studio scientifico. Qualsiasi tentativo di comprensione di quella parola passa non attraverso l’atomizzazione della parola stessa, come fa il metodo scientifico, ma attraverso la sua unità (chi parla, il modo in cui parla, il contenuto di quel parlare, il ricevente quella parola). Solo rinunciando al metodo atomizzante si può rendere intelligibile quella parola. Non è così che avviene con i pazienti? Due persone che, da posizioni asimmetriche, tentano di capirsi reciprocamente e che, nel farlo, attingono a una rappresentazione dell’altro in termini unitari, non frammentati. E, quando si parlano, ognuno non lo fa con la propria totalità rivolta alla totalità dell’altro?
Il ritorno alla centralità dell'uomo
Perché ridurre la parola della persona ad un oggetto? Credo che la psicoanalisi debba occuparsi del soggetto, sapendo che ogni soggetto è un microcosmo irriducibile a qualsiasi tentativo di frammentazione. Non che questa frammentazione non venga continuamente tentata. È sotto i nostri occhi il risultato dell’uomo nato e cresciuto in questo tentativo continuo di riduzionismo. Almeno la psicoanalisi potrebbe lavorare per una ricomposizione dell’intero, del soggetto, della persona? In ogni caso la parola non è nemmeno la verità del soggetto che si esprime. La verità che emerge dal linguaggio, sia esso parlato oppure scritto, ha a che fare con l’oggettivizzazione del proprio stesso pensiero. Nulla di oggettivo, in questo senso, può essere vero, perché nessuna verità può essere o divenire una cosa. Anche il linguaggio così utilizzato può essere considerato una cosa. Fino a che la coscienza si limita ad essere esclusivamente quella dell’Io, quella della salvaguardia del potere personale, la visione di una comunità umana non si può realizzare perché essa richiede di riconoscere in sé una coscienza universale. La logica esclusivista dell’Io è la logica di un essere che vede l’altro come un altro su cui ha potere, e di cui corre continuamente il rischio di diventare a sua volta una cosa. Se non si supera tale logica dell’Io non c’è scampo alla paura e al sospetto.
Lavorare su se stessi
Oggi il lavoro per raggiungere una coscienza più universale è un lavoro di tipo interiore, non solo sociale. Tutta l’evoluzione consiste in salti del pensiero su piani di riflessione più elevati. Noi esseri umani teniamo ancora separata la totalità dell’essere, teniamo separata la coscienza dalla parte corporea: viviamo separati tra un pensiero su noi stessi e un corpo che vive in quanto animato da questa consapevolezza. Quando l’uomo potrà riconoscersi come essere completo, come un essere trascendente che abita nel corpo, forse in quel giorno la nostra finitezza umana assumerà contorni più felicemente praticabili nei sentieri del quotidiano. Rimane oggi la nostra comune necessità di oggettivare, perché è, ad oggi, l’unica condizione che abbiamo per dar conto della gamma infinita di emozioni, sentimenti ed esperienze che sperimentiamo ed esercitiamo.
La ricerca della Verità
Nello spirito di Esculapio, ai tempi dell’antica Grecia, compito del terapeuta doveva essere quello di ricercare, oltre che di curare. Si narra che lo spirito antico del “terapeuta” fosse quello di chi si votava al culto di dio, di chi aiutava a riportare l’essere umano alla sua fonte, riportava l’uomo a dio, alla sua divinità. Non è nemmeno vero però che la verità sia solo soggettiva. Non mi pare sostenibile nemmeno affermare che ognuno di noi ha la sua verità. Questo significherebbe relativizzare la verità al proprio vissuto esperienziale, cosa certamente valida se si trattasse di testimoniare la nostra vita fino a quel momento, ma non è credibile che esista una verità finita per ognuno di noi. Credo invece che esista la verità “dentro” e “attorno” a noi, una verità solo intuibile, non nominabile, non confrontabile, una verità immateriale e immortale che attraversa tutto il tempo e lo spazio della nostra esistenza. Nel momento in cui ne parliamo o scriviamo, come sto facendo io adesso, non è più la verità che emerge ma il tentativo di oggettivare quello che credo vero, un tentativo di concettualizzare che mi permette di entrare in contatto con altri esseri umani come me, con cui posso condividere, attraverso un linguaggio comune, idee, pensieri, affetti. Gli altri, tutti gli altri, sono esseri umani come me e non possono fare qualcosa di diverso da quello di tentare di oggettivare quello che faccio io. Il linguaggio esistente tra noi è così.
Relazionale, mutuo e infinito. Noi produciamo mondi, vite, storie. Sviluppiamo rapporti, viviamo relazioni. Lo facciamo da svegli e lo facciamo anche da addormentati. La nostra coscienza produce sempre mondi. Siamo proprio sicuri che gli unici sogni che facciamo sono quelli che ci capitano mentre dormiamo? Lo “scarto” di cui parla il mio paziente è una questione profonda.
L'importanza della cura di sé
La sua affermazione, oltre che essere presa come falsificabile, cioè interrogabile dal punto di vista dello scambio con me terapeuta, la sento vera anche per me. La nostra essenza umana potrebbe essere uno scarto, una differenza, qualcosa che si pone tra quello che fa la nostra cognizione e quello che traduce il nostro corpo. Personalmente credo che siamo, essenzialmente, esseri spirituali che abitano in un corpo materiale immerso in una cultura. Fin dalla nascita trascendiamo la nostra natura animale e tutto di noi è modellato dalla cultura ambientale e umana che ci accoglie. Perfino i nostri bisogni biologici di base assumono dimensioni culturali. Fame e sesso, ad esempio, sono espressi come dati culturali, non come praticati come istinti animali. Siamo esseri in divenire. Diventiamo umani trascendendo la nostra parte originaria di specie animale istintuale. Questa nostra intangibile sacralità ha bisogno di essere riconosciuta con amore. Non sempre è così, anzi. Quando questo amore non arriva, oppure non viene percepito, noi ci ammaliamo. Diventiamo malati d’amore. La cura di noi stessi è la cura di un destino d’amore che è mancato. La cura di sé diventa così la cura del proprio destino.
Pieno di rabbia
Riprendo un altro pezzo di seduta con Mario.
Mario è arrivato con un quarto d’ora d’anticipo e aspetta, come sempre, che lo vada a prendere nella sala d’attesa. Appena entra nella stanza non si siede come al solito ma rimane in piedi, appoggiando le mani sul tavolo, aprendole e chiudendole a pugno. Mi siedo sulla mia sedia e gli chiedo cosa gli sta passando in mente con questo suo atteggiamento.
“Sono venuto con un sentimento contrastante. Ero deciso a chiederle una seduta supplementare perché sono troppo pieno di rabbia, ma avevo anche in mente di proporle di sospendere per un mese le sedute. Credo mi farebbe bene starmene a riflettere da solo per le cazzate che faccio. Così mi sento proprio impotente. Oggi ne ho combinata una veramente grossa al lavoro, sono stato un idiota.”
Si siede e mi racconta una storia, abbastanza confusa, su come si è comportato in una vicenda lavorativa.
“Prima di poter o meno parlare a fondo di questa storia al lavoro, bisogna collocarla in un contesto più chiaro tra di noi.
Me ne parla col sentimento di stare qui o con quello di sospendere?”
“Sono impotente a scegliere qualsiasi cosa.”
“Una cosa è il sentirsi impotenti, un’altra è scegliere di esserlo.”
“Sì… però così devo impormi una scelta!”
“Già si impone una scelta. Segue quello che il suo sentimento le suggerisce? Decidere di ‘non scegliere’ è una scelta, peraltro rispettabile come qualsiasi scelta, purché consapevole.”
“Lei non mi capisce! Non si rende proprio conto! Le racconto nel dettaglio cosa ho combinato.”
Mi parla degli avvenimenti avvenuti al lavoro, dove ha assunto una posizione opposta a quello che aveva avuto fino al giorno prima.
“Dove mette questa storia? Nel continuare ad incontrarci o nel sospendere?”
“Sono anni che vengo qui! E ancora faccio questi casini! A che cosa mi serve continuare a venire se non riesco nemmeno a scegliere? Ci deve essere qualcosa di molto malsano in me se faccio così… Come si fa ad avere dentro due cose così contrastanti… Eppure qualcosa mi dice anche che posso sperare di cambiare… ed è quello che desidero.”
“Non potrebbe scegliere quest’ultimo come criterio? Finora non se lo è consentito. Non si tratta di negare l’ambivalenza del sentimento, quando mai non lo è, ma di assumerlo così, insieme alle altre cose che prova, desiderio compreso. Solo se lo assume può scegliere consapevolmente qualcosa, altrimenti la scelta è fatta a favore di quello che preme di più in questo momento.”
“E se sbaglio nella scelta?”
“Avrà qualcosa in più di prima da comprendere. Anche per fare un’altra scelta, se la ritiene giusta e utile.”
Rimane assorto per molto tempo.
“Continuo, ma non riesco adesso a tenermi dentro tutto per una settimana ancora. Almeno per una volta, mi dà un’altra seduta?”
Apro l’agenda.
Prendere una decisione
Faccio la penultima riflessione.
Il paziente, nel ricercare le attenzioni per la propria e unica specificità, si consegna nelle mani del terapeuta. La cura proposta non dovrebbe, come invece spesso succede, sottrarre la persona alla sua dimensione sociale e collettiva, spogliandola dalle proprie peculiarità storiche per farla entrare in quelle, individualizzate e destoricizzate, di paziente. Il tentativo di oggettivare l’uomo è stato, d’altronde, un passo obbligato della medicina occidentale: per essere guardato scientificamente, l’uomo è stato dunque oggettivato e rimosso come soggetto, lungo un percorso che segna il passaggio dalla medicina come arte alla medicina come scienza. Pietro Barcellona ha scritto che il rovesciamento imposto dall’oggettività trasforma la realtà: rende “soggetto” un inesistente universale, “la malattia”, e rende un “oggetto” un particolare drammaticamente presente,“l’uomo malato”.
Il termine paziente presuppone, etimologicamente e storicamente, una passività che si manifesta nel subire un dolore, nel soffrire una malattia. Oggi, il nostro concetto di terapia parte invece dalla premessa di un’assunzione di responsabilità nella ricerca della propria cura e della propria salute. Quando un mio vecchio maestro, ormai scomparso, Sergio Erba, sosteneva il concetto di reciprocità, di cinquanta e cinquanta, rivendicava non solo al terapeuta la titolarità di soggetto, ma anche al paziente. Può essere un cambiamento storico questo concetto di paziente come soggetto? Sì, se si accoglie l’assunto che il paziente è sì sofferente, ma anche attivo protagonista della propria cura e del proprio destino. Anche quando sceglie apparentemente di non occuparsene. Cosa peraltro non vera fino in fondo, almeno finché viene allo studio del terapeuta. D’altra parte, la malattia non è il destino dell’uomo. La malattia è un pensiero e, come già sostenevano Schopenhauer e Nietzesche, il pensiero viene quando vuole lui, non quando voglio io. Un poco come la vita: non sono solo io che la vivo, ma sono anch’io vissuto da essa.
La dipendenza
Un altro spezzone di seduta con Mario.
Una volta è scomparso per un mese, senza farsi mai vivo. Io non l’ho cercato. Quando è tornato mi ha parlato di quanto gli fossi mancato:
“Sono troppo dipendente da lei.”
“Cosa intende per dipendenza?”
“Ho disperatamente bisogno di poter contare su di lei, di poterle parlare di quello che penso e che faccio, di avere la sua approvazione.”
La sua dichiarazione mi turbò moltissimo. Pensai che stavo facendo qualcosa di sbagliato nel lavoro, di sviluppare con il mio atteggiamento un eccessivo attaccamento di Mario.
“Io dipendo da tutto il creato” gli dissi, dopo alcuni minuti di riflessione.
Siamo tutti collegati
Faccio l’ultima riflessione.
Quando comprese la mia risposta rimase emotivamente sconvolto per molti mesi. Veniva alle sedute sempre puntuale, si accomodava stancamente sulla sedia e piangeva. Erano pianti accorati, singhiozzanti, che non sarei capace di descrivere meglio. Attraversavano tutta la sua e la nostra esistenza in quella stanza. Mario capì dapprima con l’emozione e con una sorta di intuizione, poi anche col pensiero. Non saprei dire se i due processi debbano essere così sempre. Però trovo che molte volte una comprensione solo intellettuale scotomizzi quella emotiva e comunque si tratta di comprensioni assai diverse. Comunque sia Mario cominciò a collegare il suo dolore con le sue esperienze affettive interne, poi passò a ridiscutere con se stesso le esperienze con il mondo esterno. Avendo compreso che aveva bisogno di essere, prima di tutto, un figlio, si mise finalmente a farlo con quegli atteggiamenti dialoganti che aveva solo sognato e mai attuato prima di allora. Col tempo ha compreso che la preoccupazione sulla dipendenza è infondata.
La dipendenza è una condizione fondante della nostra natura umana. Ammetterlo a se stessi è certamente una condizione di vulnerabilità e, nello stesso momento, un richiamo al bisogno di essere riconosciuti affettivamente come persone umane, come titolari di una singolarità esistenziale irriducibile a qualsiasi altro dato. Un genitore e un figlio: due ruoli reali della vita che, in terapia, si riproducono inevitabilmente, nel bene e nel male, perché la struttura asimmetrica delle relazioni d’aiuto pone il curante sempre a un diverso livello del curato.
Il nostro destino
Quando parliamo di ruoli nella vita reale sappiamo che ne attraversiamo tanti. Di volta in volta possiamo essere figli, amici, genitori, e così via. A ogni ruolo corrisponde una funzione diversa. In cuor nostro sappiamo come dovrebbe essere un’esistenza ottimale. Ma chi l’ha mai avuta? E c’è qualcuno che conosce qualcun altro che l’ha avuta?
Sappiamo che la vita ci ha riservato un certo destino, e che siamo qui per prendercene cura. Le nostre capacità attuali sono sempre al massimo quando ci prendiamo cura delle nostre cose. Pur essendo al massimo delle nostre capacità di questo momento sappiamo però anche che abbiamo dei limiti: limiti fisici, limiti temporali, limiti cognitivi, ecc. Anche le nostre più grandi capacità sono sempre piene di limiti. Dobbiamo partire da dove siamo se vogliamo andare da qualche parte.
Rabbia e paura sono collegate
Mario oggi ha paura di finire la terapia.
Alla ripresa delle sedute, dopo le vacanze estive, ha espresso l’idea che sarebbe giusto lasciare il posto a qualcun altro. Lo ha detto con un tono però poco convinto, che a una successiva indagine si è rivelato essere un modo, un poco accademico, di affermare che la terapia più di quel tanto di bene non può offrire.
“Credo che questo non sia giusto, però. Perché anche nella terapia non si può essere felici?” si chiede.
“Io un presente di dignità non l’ho mai avuto prima di adesso”, diceva ancora Mario.
Abbiamo molto interrogato questa possibile felicità che lui auspica di vivere anche in terapia.
Accontentarsi o essere felici?
Personalmente non sono un militante del partito dell’”accontentiamoci”, anche se capisco che ognuno ha un suo massimo esprimibile in ogni tempo della sua evoluzione. Se uno vuole esprimere più produttivamente le proprie qualità è meglio vedere perché non lo fa, piuttosto che soffermarsi sui limiti esterni, anche se questi ci sono e contano molto. Noi, in larga misura, veniamo da storie piene di dolore e di tristezza. Se siamo qui, però, vuol dire che siamo anche pieni di speranza. Questa è una nobiltà dell’uomo: essere pieni di speranza. Anche quando siamo feriti, arrabbiati, vilipesi, coviamo un germe di speranza di poter cambiare lo stato delle cose e questi stati d’animo. Che ci sia un posto, che ci sia qualcuno che sta con noi semplicemente perché siamo esseri umani e vorremmo essere trattati con umanità. È utopia la felicità? Mah, se lo è si può convenire che è una bella utopia. Ritengo che siamo nati anche per essere felici, anche se la vita ci costringe a misurarci troppo spesso con il dolore e l’infelicità. Quasi tutto, nel nostro mestiere di terapeuti, ci ricorda che noi lavoriamo con il dolore di vivere delle persone. La ricerca della felicità è spesso un miraggio, ed è già tanto se raggiungiamo una condizione di relativa serenità. Alla lunga penso che sia giusto anche questo.
Cosa vogliamo? Sappiamo cosa vogliamo? E quando lo sappiamo, troviamo il coraggio di affrontare tutti i passi necessari per conseguirlo? Io credo che la storia di Mario con me stia andando in una direzione ancora oscura per lui. Vuole capire chi è lui e chi sono io per lui.
Nella nostra professione, con molta fatica, si sta facendo strada l’idea che dovremo abituarci all’eterna cura di noi stessi. La cosa non sarebbe male, anche perché sono convinto che la cura di sé non la si fa certo solo seduti sulla sedia o sdraiati sul lettino del terapeuta, anzi. La cura di sé non può essere presentata però solo come una cura di cui ha bisogno l’essere umano, in quanto troppo imperfetto, pieno di debolezze e contraddizioni e neanche può diventare una specie di “mistica terapeutica” che dice: dobbiamo imparare a rispondere sempre più solo con le emozioni.
L'equilibrio delle emozioni
Non credo che questo sia del tutto vero. Quando il paziente si lascia andare, dietro il torrente emotivo si manifesta, in tutta la sua drammaticità, la paura di un “nulla” esistenziale. Le emozioni sono importantissime ma hanno bisogno di essere accolte e vissute con qualcuno che ci aiuti anche a decifrarle e a integrarle in una visione di noi stessi e degli altri sempre più matura. Mario mi ricorda che il mio ruolo non ammette sconti: io sono il suo terapeuta e lui è il mio paziente. Tradotto nel linguaggio della vita reale e del mestiere di cura che svolgo, significa che io so di dover avere cura di me stesso, prima ancora di curarmi di lui. E il farlo, lo considero un dovere per me stesso. Cosa devo curare in me? Il senso vitale delle mie capacità umane, rispondo. Aver cura delle mie qualità e capacità umane è curare il mio destino. Se non riesco a dare un senso buono a me stesso, che cosa darò agli altri?
Dieci mesi fa Mario ha sospeso la terapia. Vuole provare a reggersi senza quell’impegno settimanale, ormai per lui troppo prolungato nel tempo. Mi manda una cartolina da ogni posto in cui si reca. In una delle ultime c’era scritto: “Non avrei mai immaginato di essere qui. Si vede che era scritto nel mio destino”.
Sono stato tentato di scrivergli che il suo destino lo stava scrivendo attraverso il suo essere nel mondo, ma poi non l’ho fatto. Mi sembra più utile che continui a cercare di percorrerlo e di prendersene cura.
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